Il World Economic Forum l’ha inserita al sesto posto della classifica delle competenze vincenti sul lavoro nel 2020. Parliamo dell’intelligenza emotiva, una qualità che sulla scia degli studi pubblicati da Goleman attualmente rappresenta uno dei parametri più ricercati in ambito sociale e organizzativo.

Cos’è l’Intelligenza Emotiva: dalla neurobiologia alla performance professionale

Conosciuto dai più per la sua forte esperienza nel management strategico, Daniel Goleman continua a offrire interessanti contributi grazie ai suoi studi sulla performance organizzativa associata all’intelligenza emotiva dell’intera squadra di lavoro. Psicologo e giornalista statunitense, Goleman ha avuto il merito di divulgare un concetto studiato da anni, ampliandone l’applicazione nel campo organizzativo grazie alla diffusione dei vantaggi che tale abilità può offrire in termini di performance e qualità dell’ambiente di lavoro.
L’intelligenza emotiva (Emotional Intelligence) può essere definita come la capacità di percepire, comprendere e gestire le emozioni proprie e altrui. Diversi studi hanno sottolineato come persone dotate di elevata intelligenza emotiva possano contare su un importante fattore protettivo che limita la possibilità di adottare comportamenti devianti o antisociali. Più precisamente, tale capacità si associa alla tendenza a intrattenere relazioni interpersonali funzionali, a elevate competenze supportive nei confronti di chi si trova in difficoltà, maggiore stima da parte del gruppo dei pari e migliori capacità di autoregolazione delle emozioni e dello stress (Lopes, Salovey, Straus, 2003; Brackett et al., 2006).
Il costrutto ovviamente possiede una base fisiologica che può aumentare o diminuire il livello di Intelligenza Emotiva individuale sulla base della sollecitazione ambientali. Più precisamente, a livello neurobiologico stati di apatia, stress e disinteresse che caratterizzano determinate situazioni lavorative disattivano le aree corticali prefrontali del cervello, limitandone le funzioni che sono chiamate a svolgere dalla comprensione all’apprendimento, oltre alla concentrazione e alla creatività: tutti processi fondamentali per una massima espressione del proprio potenziale umano e professionale.
Nonostante la cultura occidentale tenda troppo spesso a trascurare la stretta connessione tra corpo e mente e ciò vale soprattutto in ambito organizzativo, l’ambiente di lavoro può essere nettamente trasformato in incubatore di potenziale umano. Gli studi nel campo delle neuroscienze indicano chiaramente la base biologica di questo “potere” che porta il nome di neuroplasticità: il cervello continua a evolversi lungo tutto l’arco di vita, permettendo a ogni azienda di mettere a punto appositi programmi per favorirne la piena espressione.
Uno studio promosso dai ricercatori dell’UCLA può aiutarci a fare chiarezza circa i vantaggi associati a buoni livelli di I.E. nei vari contesti di vita. Gli studiosi hanno impiegato uno strumento per individuare l’attività cerebrale chiamato FMRI con l’obiettivo ultimo di identificare i processi attraverso i quali il cervello regola le emozioni. Il campione oggetto d’analisi contava 30 soggetti tra i 18 e i 36 anni sottoposti a diverse forme di stimolazione al fine di individuare i meccanismi alla base della lettura delle informazioni emozionali.
I risultati evidenziano come semplici attività quali il dare un nome all’emozione provata riducesse, nel campione in esame, l’intensità degli stati psicofisiologici correlati attraverso una graduale diminuzione dell’attività dell’amigdala. È possibile immaginare l’amigdala come una piccola struttura cerebrale a forma di mandorla che possiede la funzione principale di gestire i processi emotivi: quando tale porzione è molto attivata come spesso accade all’interno di ambienti lavorativi particolarmente stressanti, i collaboratori sono continuamente sottoposti a una sovrastimolazione del cervello limbico che riduce l’abilità di problem solving, gestione dei conflitti ed efficienza professionale. Diversamente, i risultati dello studio dimostrano come la contemporanea attivazione del cervello neocorticale e limbico, ovvero la sinergica gestione di pensiero ed emozioni alla base del concetto di Intelligenza Emotiva, sia in grado di favorire una maggiore abilità di autoregolazione e di riduzione della risposta reattiva.
Le ricerche inizialmente progettate in campo clinico e neurobiologico si sono successivamente estese ad altri ambiti, trovando applicazione in campo aziendale e coinvolgendo l’intero iter di selezione, formazione e valutazione dei dipendenti. Attualmente sono tre i principali modelli applicati al concetto di Intelligenza Emotiva, ciascuno dei quali adotta un approccio specifico. Mentre quello proposto da John Mayer e Peter Salovey si focalizza sul concetto binettiano di intelligenza inteso come quoziente intellettivo, i modelli elaborati da Reuven Bar-On e Goleman si concentrano il primo sul benessere, mentre il secondo sui processi comportamentali, la leadership organizzativa, la qualità delle prestazioni professionali e la produttività dell’ambiente lavorativo.

Qi di gruppo, leadership trasformazionale e sintonizzazione emotiva

In particolare Goleman ha offerto un importante contributo ponendo l’accento su quanto, in una società dove la conoscenza applicata al lavoro riveste un ruolo primario, sia il coordinamento dell’impegno di squadra a creare un valore professionale aggiunto. In tale ottica il cosiddetto “Qi di gruppo”, concetto sviluppato da Robert Sternberg e Wenqy Williams dell’Università di Yale, si configura come un parametro essenziale nella valutazione della performance organizzativa. Il Qi di gruppo può essere inteso come la somma dei migliori talenti di ciascun membro di una squadra portati al massimo della loro espressione. Tuttavia a detta di Goleman per valutare la reale produttività di una squadra il principale parametro da considerare non è il Qi di gruppo, ovvero il potenziale teorico, bensì il grado di coordinazione degli sforzi dei diversi collaboratori: la cosiddetta armonia interpersonale.
Nell’opera “Leadership Emotiva” l’autore sottolinea come sia possibile raggiungere tale obiettivo tramite un particolare tipo di leadership definita trasformazionale. Tale ipotesi è sorretta da uno studio condotto dalla società di consulenza Hay McBer su un campione di 3871 dirigenti selezionati casualmente da un elenco di oltre 20.000 grandi manager su scala internazionale. Obiettivo primario della ricerca era quella di individuare le caratteristiche della leadership e annessa gestione delle risorse umane che potesse definirsi realmente efficace. Nei risultati gli autori identificano sei diversi stili di gestione, ciascuno dei quali corrisponde a una delle componenti dell’intelligenza emotiva. Le informazioni raccolte permettono di evidenziare come una diversa gestione delle risorse umane si riflette a livello di ambiente lavorativo e di risultati produttivi annessi – fatturato e aspetti economici inclusi – ma soprattutto pone in risalto un dato particolarmente interessante. Stando ai risultati emersi, i risultati migliori sono quelli ottenuti da coloro che non si limitano all’adozione di un unico stile di comando, quanto piuttosto a coloro che sanno alternare i vari stili adottando un approccio flessibile che tiene conto di tutti i processi attivi in ciascuna situazione, incluso il prestare attenzione agli stati interni dei collaboratori.
Questa particolare forma di gestione plurima delle risorse umane prende il nome di leadership trasformazionale, in virtù della capacità di adattarsi alle richieste in modo adattivo e non autoritario. In modo analogo, un secondo studio promosso da David McClelland pubblicato su «Psychological Science» ha cercato di prevedere il rendimento di ogni organizzazione in base al clima lavorativo alimentato dai rispettivi direttori. Il campione della ricerca era un particolare tipo di impresa, più precisamente compagnie assicurative, ma i risultati riportano dati in linea con gli studi precedenti: il clima lavorativo indotto dai vari direttori rappresenta il parametro in grado di differenziare le società in ascesa da quelle in declino in termini di profitto e crescita.
Cary Cooper, docente della Manchester Business School esperto in psicologia organizzativa e della salute, ha affermato che “La base dell’I.E. nelle organizzazioni è avere dei manager in grado di tradurre le loro forti competenze sociali e interpersonali in comportamenti e strategie di leadership. Questo crea le adeguate condizioni psicologiche e fisiche per far sentire i collaboratori motivati, apprezzati e degni di fiducia”.
Secondo Goleman l’intelligenza emotiva è correlata a uno stile di leadership efficace in due modi principali. La motivazione interna riguarda la capacità di un buon leader di gestire correttamente i propri stati mentali ed emotivi. Rientrano in questa categoria la cosiddetta “self mastery”, la capacità di adattarsi ai cambiamenti restando attenti e focalizzati sugli obiettivi anche nei momenti più critici. La seconda variabile è connessa con l’ambiente esterno e include la capacità di entrare in sintonia emotiva con gli altri membri della squadra di lavoro, preoccupandosi di comprenderne gli stati interiori, le emozioni provate e le aspettative riposte nelle proprie mansioni. Per quanto possa sembrare scontato, si tratta di una competenza necessaria per favorire la comunicazione, la guida e il coordinamento delle risorse umane coinvolte.
Il modello divulgato da Goleman sintetizza tale visione sottolineando come capacità di autoregolazione, empatia, problem solving e lavoro di squadra rappresentano le competenze emotive e sociali alla base dell’efficienza di qualsiasi organizzazione. A questo punto verrebbe da chiedersi in che modo, concretamente, un’azienda possa aumentare l’intelligenza emotiva dei propri collaboratori. In collaborazione con Richard Boyatzis, professore di economia alla Case Western Reserve University, lo psicologo statunitense ha individuato quattro ambiti alla base del modello delle competenze dell’intelligenza emotiva e sociale; tutti punti chiave su cui si concentrano gli attuali training sviluppati per promuovere tale competenza in ambito organizzativo. Tale approccio segue sinergicamente il punto di vista del collaboratore e quello dell’azienda ed è così strutturato:
1. Autoconsapevolezza. Consiste nel percepire ed etichettare adeguatamente le emozioni provate e la loro origine. Ciò correla con maggiori possibilità di successo del lavoratore, mentre dal punto di vista dell’azienda l’autoconsapevolezza dei dipendenti è associata a migliori performance.
2. Autogestione. Capacità che consente di gestire adeguatamente le emozioni positive e negative. Numerose ricerche sul burnout hanno evidenziato come buone capacità di autoregolazione emotiva dei collaboratori agiscano come fattore protettivo nei confronti dello stress correlato all’attività lavorativa.
3. Consapevolezza sociale. Può essere definita come la capacità di percepire, comprendere ed entrare in sintonia con le emozioni altrui. Studi del settore hanno evidenziato come l’80% dei lavoratori ritiene che il livello di empatia negli ambienti di lavoro debba aumentare, soprattutto considerata l’elevata correlazione tra leader empatici e produttività.
4. Gestione delle relazioni. Intesa come tendenza nel lavorare sinergicamente con gli altri, adottando un approccio orientato al sostegno reciproco e alla risoluzione di eventuali conflitti. Secondo gli autori il 46% dei lavoratori riconosce l’importanza di poter contare su rapporti di amicizia tra colleghi, percentuale che raggiunge il 77% se confrontata al desiderio di poter intrattenere buoni rapporti tra colleghi.
Come abbiamo visto in precedenza, l’attivazione di percorsi tesi ad aumentare l’intelligenza emotiva nelle organizzazioni è biologicamente sorretta dalla neuroplasticità, elemento che consente di incrementare il potenziale umano in ogni contesto, attività e ciclo di vita. Alcune ricerche come quella sviluppata dall’Università di Yale suggeriscono come all’interno di un gruppo di lavoro l’allegria e il calore si diffondono per primi, a differenza di emozioni negative come rabbia e tristezza. Ciò nonostante, in molte organizzazioni continua a persistere un approccio orientato al compito di tipo cognitivo, che non prende realmente in considerazione il ruolo della sfera emotiva e della sintonizzazione interpersonale.
Dal punto di vista prettamente produttivo, il rapporto tra miglioramento del clima di servizio e garanzia di maggiori introiti è stato espresso da Lyle Spencer durante un convegno del Consorzio per la ricerca sull’intelligenza emotiva nelle organizzazioni tenutasi nel 2001. Lo studio citato sottendeva un’osservazione che probabilmente potrebbe risultare scontata, ovvero che un’atmosfera di lavoro piacevole stimola un maggior impegno da parte dei collaboratori. L’aspetto interessante è che la ricerca in oggetto ha permesso di convertire tale dato in un logaritmo: nel campione in esame un incremento dell’1 per cento nella qualità del clima di servizio si associava a un aumento del 2 per cento degli utili.
Infine, un interessante studio longitudinale sviluppato da Manuti, Giancaspro e colleghi sintetizza i vantaggi che i training per accrescere l’intelligenza emotiva possono apportare su importanti variabili quali la leadership, la resistenza al cambiamento e la qualità dell’ambiente di lavoro. Le informazioni sono state estrapolate confrontando i punteggi di autovalutazione acquisiti all’inizio del progetto e a distanza di circa 8 mesi.
In tale arco temporale il campione è stato sottoposto a training per potenziare le abilità socio-emotive precedentemente illustrate; il percorso si è sviluppato in circa tre mesi, suddiviso in cinque incontri della durata di 3 ore ciascuno per un totale di 15 ore. Per misurare il livello di intelligenza emotiva gli autori hanno selezionato uno strumento applicato ai contesti organizzativi, il Mayer Salovey Caruso Emotional Intelligence Test (MSCEIT; Mayer Salovey, Caruso, 2002).
I risultati così ottenuti hanno confermato l’ipotesi attesa, ovvero un aumento dei punteggi di auto-valutazione incentrati sul livello di Intelligenza Emotiva e alla leadership e un decremento della percezione che i manager hanno della loro resistenza al cambiamento. I ricercatori hanno inoltre mostrato come l’aumento dell’I.E. dei manager fosse direttamente correlata a minori livelli di rigidità cognitiva intesa come la tendenza a non cambiare le proprie opinioni e credenze e a una ridotta tendenza a focalizzarsi sugli aspetti negativi di un cambiamento a dispetto dei potenziali vantaggi ad esso correlati. In linea con gli studi di Goleman e di altri autori sopra citati, i ricercatori concludono ribadendo quanto, all’accrescere della capacità di gestire le emozioni proprie e altrui, l’intera organizzazione possa sfruttare tali informazioni come un feedback per attivare stati psico-emotivi adattivi, efficaci in quanto orientati flessibilmente al compito e alle richieste dell’ambiente di lavoro.

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