La nota vicenda processuale che ha coinvolto i vertici della società Bonatti S.p.a., ha segnato un punto di svolta in materia di salute e sicurezza sui luoghi di lavoro, proprio in relazione alle responsabilità di carattere penale che posso ricadere sulla figura datoriale.

Con la sentenza che ha definito il caso Bonatti, il Giudice dell’Udienza Preliminare presso il Tribunale di Roma, ha ritenuto di dover estendere la responsabilità penale anche in capo agli organi apicali e alla stessa società, spingendosi oltre rispetto a quanto argomentato da altri giudici in precedenti pronunce, nelle quali si riteneva configurabile la responsabilità civile o amministrativa del datore di lavoro.

Le conclusioni alle quali è pervenuto il GUP di Roma comportano nuovi e maggiori oneri per il titolare dell’azienda, in un’ottica di responsabilizzazione del datore di lavoro che non dovrà essere un mero esecutore materiale di un elenco di misure imposte dalla legge, ma dovrà farsi garante della salute e sicurezza dei propri dipendenti, individuando tutti i fattori di rischio legati all’attività lavorativa, siano essi tipici o atipici, e le modalità più idonee per farvi fronte.

Tali previsioni non potranno rimanere su un piano meramente cartolare ma dovranno essere rese effettive mediante il loro inserimento all’interno del documento di valutazione dei rischi, che dovrà essere costantemente aggiornato.

Pertanto, per far fronte a tale tipo di impegno, il datore di lavoro necessita della presenza di soggetti interni all’azienda, dotati di specifiche competenze ed in grado individuare, gestire e prevenire tutti i rischi e gli imprevisti legati al contesto aziendale, sia interno che estero.

Alla luce della sentenza Bonatti, la figura professionale del Security Manager, di affermazione piuttosto recente in campo aziendale, diviene una presenza imprescindibile per il datore di lavoro, in quanto rappresenta, insieme ad altre figure operanti nell’ambito della sicurezza, una garanzia in caso di verificazione di un rischio.

Il Security Manager, infatti, è quella figura interna all’impresa a cui viene affidato il compito di affrontare e scongiurare tutti i rischi che possono mettere in pericolo la vita delle persone o compromettere la sicurezza delle informazioni, delle finanze o della reputazione dell’azienda.

A tale figura viene generalmente affidata la materia relativa alla sicurezza aziendale, intesa sia come sicurezza sul lavoro sia come sicurezza del patrimonio aziendale.

Nel primo caso, il Security Manager avrà il compito di garantire la corretta vivibilità degli ambienti di lavoro, individuandone le potenziali criticità e trovando soluzioni che consentano all’azienda di perseguire uno standard ottimale di sicurezza.

In caso di verificazione di un rischio, il datore di lavoro potrà andare esente da responsabilità se dimostra di avere adottato tutte le misure idonee ad evitarlo e, l’aver previsto all’interno del proprio organico una figura specializzata in materia di sicurezza, è certamente una precauzione idonea e necessaria per sottrarlo da possibili responsabilità.

 

Il caso:

La vicenda trae origine dal rapimento di quattro tecnici specializzati della Bonatti s.p.a. i quali, inviati presso gli impianti della società in Libia, venivano sequestrati mentre si recavano sul posto di lavoro e due di loro perdevano la vita a seguito di un conflitto a fuoco.

Il fatto si colloca in un contesto di forte instabilità politica con elevati pericoli per tutti coloro che operavano sul territorio.

La situazione era talmente critica che il Ministero degli Affari Esteri aveva deciso di chiudere l’Ambasciata italiana in Libia e di convocare le società italiane operanti sul territorio, tra le quali anche la Bonatti s.p.a., per valutare i rischi e le misure di sicurezza da adottare per l’incolumità dei lavoratori che operavano in quel contesto.

Alla luce di tali raccomandazioni, la Bonatti s.p.a., aveva adottato una serie di cautele volte a garantire la sicurezza dei propri dipendenti, anche dettando precise modalità per i trasferimenti dei lavoratori.

Infatti, erano stati vietati i trasferimenti via terra ed era stato disposto che il trasporto dei lavoratori avvenisse esclusivamente per via aerea o via mare con l’utilizzo di una nave militare.

Nonostante le misure adottate, il responsabile per la sicurezza in Libia, anche detto operation manager, aveva dato l’ordine di trasportare i quattro tecnici presso i cantieri di Mellitah e Wafa in macchina anziché via mare, visto che la nave predisposta per gli spostamenti sarebbe partita solo alcuni giorni dopo.

Le esigenze di lavoro, infatti, erano imminenti e non consentivano di attendere; pertanto, i tecnici venivano condotti a bordo di un mezzo privato, guidato da un autista libico privo di scorta armata.

Il 19 luglio 2015, intorno alle ore 21,40, l’auto su cui viaggiavano i tecnici della Bonatti s.p.a. venne fermata da due vetture che intimavano all’autista di scendere; quest’ultimo veniva malmenato e legato dagli uomini delle milizie locali a volto coperto, caricato in macchina e abbandonato poco dopo sul ciglio della strada.

I tecnici italiani, invece, venivano bendati e condotti presso un primo luogo di rifugio, ove venivano segregati in una stanza in severe condizioni di restrizione della libertà personale.

Qualche mese dopo, due dei tecnici sequestrati vennero spostati in altro luogo di restrizione e nel tragitto il convoglio su cui viaggiavano venne attaccato e coinvolto in un conflitto a fuoco che portò alla loro morte.

Nel frattempo, gli altri due tecnici rimasti soli al rifugio, riuscivano a scappare e a raggiungere la strada dove intercettavano le forze di polizia che allertavano le autorità italiane dell’accaduto.

In data 03 marzo 2016 si diffondeva sui mass media la notizia della morte dei due ostaggi.

 

Le condotte contestate ai vertici della Bonatti s.p.a.

A seguito della vicenda, la Procura della Repubblica presso il Tribunale di Roma, ravvisava ipotesi di reato in capo ai vertici della Bonatti s.p.a., contestandogli una condotta di cooperazione colposa ex art. 113 c.p., atta a determinare, insieme ad altre concause, la morte di due dei quattro tecnici della Bonatti s.p.a., avvenuta in costanza di sequestro.

Le contestazioni ai vertici, tuttavia, erano differenti:

– ai membri del Consiglio di Amministrazione veniva contestata una responsabilità omissiva colposa per la mancata procedimentalizzazione delle misure di sicurezza ritenute idonee e necessarie a garantire l’incolumità dei dipendenti presenti in territorio libico. Più precisamente, gli si contestava la mancata individuazione e valutazione del rischio relativo al trasferimento dei dipendenti in aree geografiche come la Libia e la mancata adozione di misure di precauzione volte alla gestione di tale rischio;

– all’operation manager dirigente della branch libica, veniva invece contestata una condotta commissiva colposa per aver ordinato modalità di trasporto non conformi a quelle stabilite, del tutto inidonee a garantire la sicurezza dei lavoratori nel tragitto verso il luogo di lavoro.

Alle contestazioni elevati ai vertici, seguivano quelle elevate alla stessa Bonatti s.p.a. per responsabilità amministrativa da reato ex art. 25 septies d.lgs. 231/2001, in relazione alla morte dei propri dipendenti.

Per tali condotte, con pronuncia del 22 gennaio 2019, il GUP di Roma condannava, all’esito di giudizio abbreviato, i membri del CDA della Bonatti s.p.a., nonché a seguito di patteggiamento il dirigente della branch libica e, infine, la stessa società.

Il GUP, nell’esaminare la vicenda, prendeva in analisi la complessa materia della salute e sicurezza sui luoghi di lavoro toccando una serie di tematiche di rilevante interesse.

A partire dalla sentenza che ha definito il caso Bonatti s.p.a., la sicurezza del personale estero non potrà più considerarsi una questione di responsabilità civile o amministrativa ma assumerà, al contrario, rilevanza penale.

La cooperazione colposa ex art. 113 c.p.

Il primo tema affrontato in sentenza riguarda i profili di configurabilità della cooperazione colposa nei sistemi organizzativi complessi, come sono quelli aziendali.

Come detto, la cooperazione colposa veniva ritenuta sussistente in capo ai vertici della Bonatti s.p.a. nella realizzazione dell’evento doloso legato alla morte dei due ostaggi, avvenuta in costanza di sequestro.

Infatti, le condotte contestate rispettivamente ai membri del Consiglio di Amministrazione della Bonatti s.p.a. e al delegato per la sicurezza in Libia, di natura colposa, venivano ritenute dal Giudice cause tra loro concorrenti nella realizzazione prima del sequestro e poi della morte degli ostaggi.

Dette condotte, a loro volta, venivano ritenute concorrenti anche con ulteriori condotte indipendenti, stavolta di natura dolosa, imputabili ai sequestratori e ai soggetti che avevano dato origine al conflitto armato causando la morte di due dei dipendenti della Bonatti s.p.a.

Il ragionamento seguito dal GUP di Roma nel riconoscere in capo agli imputati una cooperazione colposa, poggiava sulla valenza estensiva conferita all’art. 113 c.p. dalla nota sentenza a Sezioni Unite relativa al caso ThyssenKrupp (sentenza n. 38342 del 24/04/2014), con la quale i giudici di legittimità avevano affermato che “la consapevolezza di cooperare con altri è in grado di estendere il novero degli obblighi cautelari, facendo sorgere in capo a ciascun agente, il dovere di relazionarsi e preoccuparsi anche della condotta degli altri soggetti che intervengono nella stessa situazione.”

Ed infatti, “in tali situazioni, l’intreccio cooperativo, il comune coinvolgimento nella gestione del rischio, giustifica la penale rilevanza di condotte che, sebbene atipiche, incomplete, di semplice partecipazione, si coniugano, si compenetrano con altre condotte tipiche”.

Da ciò conseguiva che, nelle organizzazioni aziendali complesse, dove vi è una divisione di doveri di tutela dei dipendenti e nelle quali le decisioni vengono prese con il contributo di diversi livelli di potere e di diverse competenze, la cooperazione colposa deve considerarsi “una saldatura delle singole posizioni di garanzia rivestite da soggetti distinti e alle quali risultano connessi specifici e diversi profili di responsabilità, consentendo una visione unitaria e completa delle condotte che concorrono alla produzione dell’evento”.

Sulla scorta di tali premesse e in applicazione dei principi enunciati nella sentenza ThyssenKrupp, il GUP di Roma riteneva che la mancata procedimentalizzazione delle misure di sicurezza relative al trasferimento dei dipendenti da parte dei componenti del CDA Bonatti s.p.a., titolari della posizione di garanzia che li obbligava a individuare e valutare i rischi aziendali, aveva favorito la violazione della regola cautelare da parte dell’operation manager in Libia rendendo, di fatto, possibile il sequestro dei quattro tecnici e la morte di due di loro.

Fu proprio il deficit organizzativo della società ad agevolare la condotta commissiva colposa del dirigente libico, quale conseguenza di colpevoli omissioni in materia di prevenzione.

 

DVR e modelli di organizzazione e gestione

Per individuare la regola cautelare violata dai vertici della Bonatti s.p.a. il Giudice ripercorreva in sentenza il sistema normativo previsto per la valutazione e la gestione dei rischi connessi all’attività d’impresa e ravvisava, in capo ai consiglieri del CDA, la mancata previsione all’interno del documento di valutazione dei rischi (DVR), di quelli connessi al trasferimento di personale in zone pericolose come la Libia.

I predetti venivano, quindi, ritenuti responsabili di aver violato una regola di condotta specifica connessa alla loro posizione di garanzia, in relazione al ruolo decisionale, organizzativo e di alta vigilanza dagli stessi ricoperto.

Allo stesso modo, anche la condotta tenuta dall’operation manager in Libia, veniva reputata idonea a violare una regola cautelare, anch’essa specifica.

Le fonti normative alle quali far riferimento sono il d.lgs. n. 231/2001 e il d.lgs. n. 81/2008, che trovano il proprio fulcro proprio nell’attività di valutazione dei rischi per prevenire il verificarsi di infortuni e l’insorgere di malattie professionali.

Mentre lo scopo delle procedure delineate dal d.lgs. 81/2008 è quello di garantire il massimo livello possibile di sicurezza nei luoghi di lavoro, i modelli di organizzazione e di gestione sono strumenti finalizzati ad impedire il verificarsi di reati dipendenti dalla violazione delle norme sulla tutela della salute e sicurezza sul lavoro.

La normativa impone, infatti, la previsione di un organismo deputato a vigilare sul funzionamento e l’osservanza dei modelli e prevede, altresì, obblighi di informazione nei confronti di tale organismo, tanto che, in tema di modello organizzativo, l’art. 30 del d.lgs. 81/2008 prevede talune circostanze esimenti della responsabilità delle persone giuridiche, delle società e delle associazioni non riconosciute.

La norma, infatti, stabilisce che il modello organizzativo deve prevedere “un idoneo sistema di controllo sull’attuazione del medesimo modello e sul mantenimento nel tempo delle condizioni di idoneità delle misure adottate”.

In tale contesto, quindi, si collocavano gli obblighi di informazione gravanti sulla società nei confronti dell’organismo di vigilanza e la previsione di incontri periodici e di continui scambi di informazioni tra tale organismo ed i soggetti protagonisti del sistema di prevenzione.

A parere del giudice, da tale previsione normativa derivava la necessità di un costante adeguamento dei modelli organizzativi e l’apporto di eventuali modifiche nel caso di rilevate violazioni o nel caso di modifiche nell’attività o nella struttura organizzativa.

Pertanto, il modello organizzativo doveva essere concepito come “dinamico”, ovverosia in grado di adeguarsi e di modificarsi in relazione alle mutate caratteristiche della struttura del rischio.

Sul datore di lavoro, quindi, non gravava solo l’obbligo di individuare e analizzare tutti i rischi connessi all’attività lavorativa, avendo riguardo delle più innovative conoscenze tecnologiche, ma anche quello di delineare in maniera il più possibile dettagliata tali profili di rischio, sottoponendo a periodica revisione ed aggiornamento il DVR.

Tale documento, quindi, non doveva rappresentare solo un formale adempimento alle prescrizioni imposte dalla legge, ma doveva essere concepito come uno strumento che, insieme al modello organizzativo, esplicitasse la capacità dell’impresa di adeguarsi e costantemente modificarsi in relazione al mutamento del rischio stesso.

 

Il Rischio ambientale e di concetti di Safety e di Security

Le motivazioni della sentenza Bonatti affrontavano anche il tema relativo al c.d. rischio ambientale o geopolitico ed il dovere di ricomprendere nel documento di valutazione dei rischi anche tale concetto.

Nell’analizzare il tema legato al rischio ambientale, il Giudice esaminava in sentenza i differenti concetti di safety e di security, proprio nell’intento di respingere le tesi difensive volte a dimostrare come, almeno fino al 2016, non esisteva alcun obbligo normativo che imponesse al datore di lavoro di inserire nel DVR tutti i rischi rientranti nell’ambito della security.

Giova precisare che, con il termine safety si fa riferimento alla prevenzione dei rischi c.d. “endogeni” all’attività lavorativa, ovvero a questa strettamente connessi; diversamente, con il termine security, si fa riferimento ai rischi c.d. “esogeni”, ben chiariti dal giudice come quei rischi “trasversali” (non correlati a caratteristiche peculiari di date attività lavorative), “prospettici” (cioè atipici, non consequenziali rispetto ad eventi già verificatisi) e “non classificabili” (in quanto difficilmente contenibili in tutele preventive).

Ebbene, seguendo i principi enunciati dalla Suprema Corte in tema di sicurezza sui luoghi di lavoro, il GUP di Roma ricordava che “il datore di lavoro deve valutare tutti i rischi, compresi i potenziali e peculiari rischi ambientali legati alle caratteristiche del Paese in cui la prestazione lavorativa dovrà essere svolta, quali a titolo esemplificativo, i cosiddetti “rischi generici aggravati”, legati alla situazione geopolitica del Paese (es. guerre civili, attentanti, ecc.) e alle condizioni sanitarie del contesto geografico di riferimento non considerati astrattamente, ma che abbiano la ragionevole e concreta possibilità di manifestarsi in correlazione all’attività svolta”.

Lo stesso Giudice aggiungeva poi che, anche se il nostro ordinamento non prevede norme che disciplinano in maniera specifica il rischio ambientale, ciò non poteva esonerare il datore di lavoro a considerarlo e valutarlo, soprattutto se strettamente collegato all’attività lavorativa.

Pertanto, a parere del giudicante, i rischi ambientali non potevano considerarsi rischi esogeni o atipici in quanto, essendo l’attività della Bonatti s.p.a. svolta prevalentemente in territori con noti contrasti bellici, il rischio geopolitico diveniva prevedibile, se non addirittura probabile e, pertanto, tipico e fisiologico dell’attività lavorativa.

Nel caso della Bonatti s.p.a., era preciso obbligo dei vertici quello provvedere ad individuare, valutare e scongiurare la verificazione del rischio connesso al trasferimento dei lavoratori, soprattutto a fronte di una conosciuta situazione di estremo pericolo, quale era quella esistente in Libia già a partire dall’anno 2014.

 

La branch libica e la delega di funzioni

In ossequio a quanto previsto dall’art. 16 del d.l.gs. 81/2008, ovvero la possibilità per il datore di lavoro di delegare le funzioni che gli sono proprie a terzi soggetti che, tra le varie condizioni previste dalla norma, possiedano i requisiti di professionalità ed esperienza richiesti dalla natura delle funzioni delegate, i vertici della Bonatti s.p.a., avevano istituito la figura dell’operation manager in un’ottica di rafforzamento del presidio organizzativo delle attività estere,  conferendogli i poteri per gli affari aziendali della succursale in Libia.

La delega di poteri aveva riguardato, oltre alla gestione operativa ed economica delle commesse e delle attività di supporto al business, anche la materia della sicurezza e della prevenzione degli infortuni sul lavoro.

Sulla scorta di ciò, la difesa dei membri del CDA Bonatti s.p.a., aveva sostenuto che l’autonomia di poteri e di funzioni conferite alla branch libica e all’operation manager, rendeva quest’ultimo il reale datore di lavoro dei dipendenti rimasti vittime in Libia e, dunque, l’unico responsabile per i fatti reato contestati.

La sentenza sul punto chiariva come, per la giurisprudenza della Suprema Corte, “per apprezzare in concreto il titolare della posizione di garanzia occorre partire dall’identificazione del rischio che si è concretizzato, del settore, in orizzontale, e del livello, in verticale, in cui si colloca il soggetto che sia deputato al governo del rischio stesso, in relazione al ruolo che egli rivestiva; non potendo peraltro escludere che, sempre nel concreto, si apprezzi la sussistenza di una pluralità di soggetti chiamati concorrentemente a governare il rischio: ciò che è ben possibile, specie in organizzazioni di una qualche complessità, laddove ci siano persone con diversi ruoli e competenze, chiamate a ricoprire il ruolo di garanzia”.

Dunque, a parere del GUP di Roma, la delega di poteri conferita all’operation manager in Libia, non esonerava il datore di lavoro da qualsiasi responsabilità per gli infortuni dei dipendenti, essendo egli tenuto ad un dovere di sorveglianza nei confronti del soggetto preposto in materia di sicurezza.

Le succursali della Bonatti s.p.a., quindi, non potevano considerarsi completamente autonome ed autosufficienti, in quanto comunque operanti nel rispetto delle politiche aziendali e all’interno dello schema tracciato dalla sede centrale.

La Bonatti s.p.a. aveva, di fatto, devoluto al soggetto che rivestiva un ruolo apicale nella branch libica, fisicamente presente in loco, il potere/dovere di individuare e valutare i rischi e di adottare le opportune misure di prevenzione.

Tuttavia, il processo aveva permesso di accertare che i trasferimenti dei lavoratori erano economicamente a carico della società madre e da questa gestiti e organizzati.

Su tali premesse, il GUP di Roma riteneva che tutti i soggetti chiamati a governare il rischio ricoprivano una posizione di garanzia e, pertanto, non si poteva reputare sussistente in capo alla branch libica un’autonomia tale da escludere la posizione di garanzia dei vertici della società madre, configurandosi, piuttosto, la presenza di una pluralità di soggetti che ricoprivano il ruolo di garanti.

 

La Responsabilità amministrativa da reato della Bonatti s.p.a.

A seguito dell’affermazione di responsabilità in capo ai vertici della Bonatti s.p.a. il Giudice riconosceva anche la responsabilità da reato della società stessa, ritenendo sussistenti nella fattispecie tutti gli elementi richiesti per la configurabilità delle responsabilità amministrativa delle persone giuridiche.

Il primo elemento era rappresentato dalla sussistenza del reato presupposto, ovvero l’omicidio colposo commesso con violazione delle norme sulla tutela della salute e sicurezza sul lavoro.

Il giudice riteneva al pari sussistente il rapporto organico tra l’ente e l’autore del reato, requisito per il quale quest’ultimo deve rivestire una funzione di rappresentanza, amministrazione o direzione dell’ente e della sua unità organizzativa, nonché esercitare di fatto la gestione e il controllo dell’ente stesso; oppure deve essere persona sottoposta alla direzione o alla vigilanza di uno di tali soggetti.

Come detto, nel caso concreto, sia i membri del CDA che l’operation manager ricoprivano in concreto posizioni di garanzia e quest’ultimo era il soggetto preposto al governo delle situazioni di rischio della branch libica.

Nelle motivazioni il giudice rammentava che “..se il reato è stato commesso da soggetto che si trova in posizione apicale l’ente non risponde se prova di aver adottato un efficace modello organizzativo e di aver attribuito la vigilanza sul medesimo ad un organo interno dotato di autonomi poteri di iniziativa e controllo […] mentre, se il reato è da imputare ad un soggetto sottoposto all’altrui direzione o vigilanza l’ente è responsabile se la commissione del reato è stata resa possibile dall’inosservanza degli obblighi di direzione e vigilanza”.

Il terzo elemento accertato dal processo era rappresentato dal vantaggio economico che la Bonatti s.p.a.  aveva ricavato quale conseguenza dell’illecito.

Essendo difficile ipotizzare un vantaggio economico o un interesse dell’ente derivante dalla morte o dalle lesioni di un dipendente, le Sezioni Unite avevano affermato il principio in base al quale l’interesse o il vantaggio devono valutarsi non in relazione all’evento, ma alle condotte che lo hanno causato, che diventano penalmente rilevanti se derivano da deficit organizzativi che si traducono in scelte aziendali orientate al mantenimento dei costi, a discapito della protezione dei lavoratori.

Il sequestro dei quattro tecnici specializzati e la morte di due di essi, erano stati motivati dalle impellenti esigenze di trasportarli presso i siti di Mellitah e Wafa; tali esigenze, avevano quindi indotto l’operation manager ad optare per una diversa organizzazione del trasporto.

La scelta di effettuare il trasferimento via terra era stata dettata, poi, anche da motivi di opportunità aziendale ovvero quelli di garantire nei cantieri libici le unità lavorative necessarie per la gestione dell’attività e di ottimizzare i costi degli spostamenti, cercando di far coincidere le partenze con gli arrivi del nuovo personale.

Infine, Il giudice riteneva sussistente anche la colpa organizzativa, aderendo al principio enunciato della Suprema Corte per il quale “il reato, perché possa configurarsi una responsabilità dell’ente, deve costituire espressione della politica aziendale o derivare da una colpa di organizzazione, non trattandosi di una forma di responsabilità oggettiva”.

La colpa organizzativa della Bonatti s.p.a. veniva ritenuta provata alla luce della mancata valutazione nel modello organizzativo adottato del rischio connesso al trasferimento dei dipendenti nelle aree geografiche nelle quali la società operava, caratterizzate da instabilità politica e da problemi ambientali.

A parere del giudice infatti “l’efficacia di un modello organizzativo è strettamente connessa sia alla sua specificità, intesa come esatta individuazione delle aree di rischio, sia alla sua attualità, in quanto adeguato ai caratteri della struttura e della attività di impresa.”

 

In conclusione, quindi, la sentenza che ha definito il caso Bonatti s.p.a. contiene argomentazioni importanti in tema di salute e sicurezza nei luoghi di lavoro e fornisce indicazioni per i titolari di aziende, indispensabili affinché questi possano operare andando esenti da responsabilità penali.

Infatti, la sentenza ha valorizzato i concetti di prevedibilità ed evitabilità del fatto commesso da altri soggetti che, al pari del titolare dell’azienda, operano nel medesimo contesto di attività, in un’ottica di collaborazione e nella consapevolezza che ogni singola condotta può contribuire alla realizzazione dell’evento dannoso, in conformità a quanto enunciato dalla famosa sentenza ThyssenKrupp in tema di cooperazione colposa.

I vertici aziendali, dovranno poi disciplinare ed inserire nel documento di valutazione dei rischi, in maniera specifica e dettagliata, tutti i rischi che caratterizzano l’attività lavorativa, quindi non solo quelli richiamati dal T.U. 81/2008 ma anche quelli prevedibili in relazione alla specificità dell’attività richiesta, compresi i rischi afferenti al contesto ambientale, geografico e politico in cui detta attività si svolge.

Il documento di valutazione dei rischi, quindi, dovrà essere costantemente aggiornato in maniera tale da poterlo adeguare all’eventuale modifica delle situazioni di rischio.

È chiaro che le aziende non potranno ignorare quanto stabilito in sentenza e dovranno organizzarsi prevedendo nuove figure aziendali in grado di fornirgli la giusta consulenza in materia.

In un simile contesto, la figura del Security Manager diventa necessaria per il datore di lavoro, soprattutto quando questo opera in un contesto complesso e rischioso come può essere quello che caratterizza alcuni paesi esteri.

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