Lo studio delle indagini difensive e del complesso rapporto con la testimonianza anonima necessitano di un cenno introduttivo di carattere storico-normativo al fine di comprendere al meglio le problematiche che legano i due istituti.

La concezione filosofica e politica che caratterizza l’Italia a partire dal periodo fascista, si pone agli antipodi rispetto alla prorompente affermazione di libertà e uguaglianza seguita alla Rivoluzione francese. A distanza di poco più di un secolo dalla “Presa della Bastiglia”, si assiste ad un recupero degli atteggiamenti propri del sistema inquisitorio; il ripudio dell’idea liberale si concretizza a livello processuale penale in una totale restrizione dei diritti individuali, rifiuto della presunzione di innocenza, attenuazioni del principio di legalità e ampie concessioni di potere all’autorità giudiziaria e alla polizia.

In tale contesto il codice di procedura penale del 1930, il c.d. codice Rocco, riservava al difensore un ruolo sostanzialmente secondario di contestazione delle prove raccolte dalla pubblica accusa nel corso delle attività d’indagine; tutta l’attività probatoria era condotta dal pubblico ministero e dal giudice istruttore, il quale aveva facoltà di condurre indagini e di interrogare i testimoni.

Solo a partire dal 1988, con la promulgazione del nuovo codice di procedura penale, il c.d. codice Vassalli, il legislatore ha voluto attribuire importanza al ruolo che riveste il momento della ricerca della prova, garantendo al difensore e agli altri soggetti autorizzati un potere sostanzialmente equiparabile a quello della pubblica accusa; in seguito, solo con la legge 7 dicembre 2000, n. 397, in vigore dal 18 gennaio 2001, è stato inserito il Titolo VI-bis, “indagini difensive”, nel libro V del codice. La nuova normativa ha introdotto una disciplina organica, i cui assetti strutturali si concretizzano nella tipizzazione delle attività investigative difensive e nella definizione delle modalità di documentazione dei risultati e del loro valore probatorio.

Sic stantibus rebus, un elemento di difficoltà si può riscontrare quando il difensore, il sostituto, gli investigatori privati o i consulenti tecnici, durante il procedimento penale, devono confrontarsi con una persona informata sui fatti la cui identità non sia conosciuta. La questione riguarda, per la precisione, l’utilizzazione nel processo penale di testimonianze rese da soggetti la cui reale identità anagrafica non è resa nota all’accusato e al suo difensore, con la precisazione che potrebbero essere occultati anche tutti i dati personali, suscettibili di condurre alla sua identificazione (soprannomi, pseudonimi). Dal punto di vista etimologico, il termine anonimo deriva dal greco «ἀνώνυμος», letteralmente privo di nome, e sta ad indicare un atto “intenzionalmente o fortuitamente mancante del nome o della firma”, requisito che, tra gli altri, è stato causa di un atteggiamento del legislatore piuttosto ostile nei confronti dell’anonimato.

La ragione che sta alla base della sua prudenza si spiega alla luce di un sistema che ha, tra i suoi principi fondanti, il diritto di difesa dell’indagato: l’impossibilità di controllare la veridicità, l’attendibilità e la qualità della prova, attraverso l’esame del soggetto da cui proviene la notizia, pone infatti seri problemi in relazione ai principi dell’oralità e del contraddittorio, capisaldi a garanzia della posizione dell’indagato.

Nonostante questo non si cada nell’errore di considerare l’anonimo del tutto espunto dall’ordinamento attuale.

La questione, in primis, è assurta agli onori di un importante percorso giurisprudenziale della Corte EDU che, interrogatasi a proposito del difficile bilanciamento tra diritti di difesa e deficit di contraddittorio, ha riconosciuto in diverse occasioni la possibilità di fare uso di dichiarazioni anonime. La Corte di Strasburgo, per quanto fosse inizialmente restia ad attribuire valore probatorio alle dichiarazioni provenienti da testimoni anonimi, ancorando tale indirizzo interpretativo alle conseguenze negative subite dalla difesa nei precedenti gradi di giudizio, con un parziale “overrulling” ne ha successivamente ammesso l’utilizzo. La Corte si è riservata la facoltà di fissare alcuni criteri per l’ammissibilità delle testimonianze anonime: ecco allora che la presenza di situazioni di pericolo concreto e attuale per l’incolumità del testimone e dei suoi congiunti, è stata ritenuta circostanza integrante i caratteri della “good reason” affinchè sia taciuta, alla difesa, l’identità del testimone. Così come è stato stabilito che, se la condanna si è basata esclusivamente o per la maggior parte su una testimonianza anonima, è indispensabile che la Corte accerti che nei precedenti gradi di giudizio siano stati compensati tutti i pregiudizi derivanti dall’assenza di un contraddittorio in senso forte.

In sintonia con quanto affermato dalla giurisprudenza europea, molti ordinamenti nazionali hanno iniziato a muoversi nella medesima direzione, introducendo deroghe all’ordinaria modalità di acquisizione della prova dichiarativa.

È ciò che è successo anche in Italia, ove le previsioni di rilievo sono state due.

Da un lato la legge n. 136 del 2010 ha inserito il comma 2-bis nell’art. 497 c.p.p., riconoscendo agli agenti sotto copertura la possibilità di declinare le generalità fittizie adottate nel corso delle investigazioni qualora venissero chiamati a rivestire lo status di testimone.

Dall’altro lato la legge n. 6 del 2018 in materia di testimoni di giustizia, ha previsto, tra le misure di protezione, la possibilità di avvalersi di documenti di copertura e di ricorrere al cambio delle generalità: strumenti da adottarsi nelle situazioni più gravi, quando ogni altra misura risulti inadeguata.

Si tratta di due innovazioni legate da un medesimo filo conduttore, lo stesso, tra l’altro, che ha giustificato l’utilizzo delle dichiarazioni anonime in sede europea: l’esigenza di proteggere l’incolumità dei testimoni da possibili ritorsioni in presenza di una situazione di pericolo concreto e attuale.

Anche in Italia, contro ogni aspettativa, è quindi stata data cittadinanza alle testimonianze anonime, seppur confinate negli ambiti di cui si è detto. Si può constatare come ne sia derivato un duplice livello di tutela: a livello soggettivo, intesa come protezione del testimone e di chi riveste il ruolo, in generale, di “vittima”; in chiave oggettiva, come strumento volto alla conservazione dei risultati acquisiti.

Spesso non è chiaro se la vera finalità del legislatore sia quella di proteggere il testimone o la testimonianza. In tale contesto è, pertanto, difficile stabilire quali saranno le prossime mosse del legislatore. Senza dubbio l’utilizzo della testimonianza anonima è rischioso. Le probabilità di infrangere la barriera entro la quale l’istituto è ammesso sono elevate e non è tollerabile una compressione eccessiva del diritto di difesa: in questo senso non si dimentichi che l’imputato non è considerato colpevole sino alla condanna definitiva (art. 27 co. II Cost.). La posta in gioco è troppo alta e ammettere in ogni circostanza l’uso di testimonianze anonime rischierebbe di vanificare questo principio costituzionale. Per queste ragioni sono apprezzabili i limiti stabiliti dalla giurisprudenza e dal legislatore, il quale difficilmente vorrà, o potrà, estendere l’applicazione della testimonianza anonima a fattispecie ulteriori e diverse dalle ipotesi dell’agente  undercover e del testimone di giustizia.

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