C’era un tempo in cui di diffamazione si parlava prevalentemente in relazione alla diffusione di notizie false o offensive attraverso i quotidiani o i periodici cartacei; ma l’era digitale, si sa, ha spostato molti equilibri ed ecco che anche il reato di cui all’art. 595 c.p. ha assunto sfumature nuove. “L’accesso al web – si legge sul sito del quotidiano giuridico Studio Cataldi – ha reso fruibili agli utenti una serie di informazioni che il più delle volte non sono diffuse da professionisti, ma da una serie indefinita di persone che possono divulgare in rete ogni genere di notizia. Il boom dei social network ha notevolmente amplificato la questione, dal momento che tutti gli utenti hanno la facoltà di poter postare in rete contenuti di vario tipo e che riguardino più persone”.

Ma che significa diffamazione?

Il reato di diffamazione si consuma ogni qual volta un soggetto, comunicando con più persone, offende l’altrui reputazione. È un delitto contro l’onore disciplinato dell’art. 595 c.p., il quale al comma 3 stabilisce che: “se l’offesa è recata col mezzo della stampa o con qualsiasi altro mezzo di pubblicità, ovvero in atto pubblico, la pena è della reclusione da sei mesi a tre anni o della multa non inferiore a cinquecentosedici euro”. Ecco, in quella locuzione “ogni altro mezzo” viene incluso anche il web e quindi i social network. In quei casi si parla di diffamazione a mezzo web.

La giurisprudenza è più volte, negli anni, tornata sull’argomento ed è recente una sentenza della Cassazione che, proprio a proposito di social, afferma che utilizzare una bacheca Facebook per diffondere un messaggio diffamatorio “integra un’ipotesi di diffamazione aggravata ai sensi dell’art. 595, comma terzo, del codice penale poiché trattasi di condotta potenzialmente capace di raggiungere un numero indeterminato o comunque quantitativamente apprezzabile di persone… né l’eventualità che fra i fruitori del messaggio vi sia anche la persona a cui si rivolgono le espressioni offensive consente di mutare il titolo del reato nella diversa ipotesi di ingiuria“ (Suprema Corte di Cassazione – V Sezione Penale Sentenza n. 40083/2018).

Analisi reputazionale e Osint: i servizi dell’agenzia investigativa Argo

Come difendersi, dunque, da chi utilizza web e social in modo illegittimo o persino delittuoso? A sostegno della propria posizione in sede di giudizio, si può scegliere di affidarsi ad un’agenzia investigativa con competenze specifiche in questo ambito.

L’agenzia investigativa Argo offre servizi di analisi reputazionale e Osint proprio a supporto di chi è stato, presumibilmente, vittima di un reato di diffamazione a mezzo web. A cosa servono? Con l’analisi reputazionale si può, appunto, valutare se c’è o c’è stata una lesione reputazionale del soggetto d’interesse, azienda o persona fisica che sia. A seconda delle circostanze, la lesione dell’altrui reputazione può essere censurata anche soltanto in sede civile ex art. 2043 c.c.

Un’indagine OSINT (o analisi delle fonti aperte) può essere determinante, ad esempio, in caso di licenziamento per giusta causa. Infatti, secondo sentenze recenti è legittimo il licenziamento per giusta causa quando, attraverso i vari social network, il dipendente critica espressamente e palesa evidente disprezzo verso l’azienda, gli amministratori, rappresentanti e potenziali partner (Tribunale di Busto Arsizio sentenza n.62 del 19 febbraio 2018), quando si ingiuria il datore di lavoro (Tribunale di Napoli n. 8761 del 15 Dicembre 2017), oppure quando il dipendente, diffama i propri colleghi (Tribunale di Milano, decreto 27552 del 29 luglio 2013).

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