Con l’arrivo della bella stagione, si sa, molte persone preferiscono ritagliarsi degli spazi personali maggiori per passare del tempo con amici o familiari e stare all’aria aperta.

Infatti, è piuttosto frequente che con l’estate alle porte molti lavoratori dipendenti approfittino dei diritti riconosciutigli dalla legge per cercare di rimanere assenti dal posto di lavoro.

Sono molti i datori di lavoro che hanno potuto constatare un incremento di assenze quando il clima si fa più gradevole e, di fronte ad una simile evidenza, è necessario che il titolare dell’azienda corra ai ripari per cercare di contenere i danni che le condotte illecite dei propri dipendenti possono arrecare all’economia aziendale.

La giurisprudenza in materia di lavoro è ormai concorde nel riconoscere all’imprenditore ampie tutele contro gli abusi messi in atto dai propri dipendenti, tutele che questi può attuare facendo ricorso ad agenzie investigative che effettuino controlli sulle condotte tenute dai lavoratori.

L’investigazione, in tal caso, sarà finalizzata all’accertamento della rispondenza del comportamento del dipendente agli obblighi che gli sono imposti dalla legge nell’esecuzione del contratto di lavoro e, quindi, fedeltà, diligenza, obbedienza, correttezza e buona fede.

Ciò al fine di verificare se il lavoratore si stia approfittando dei privilegi e diritti che gli vengono riconosciuti per legge in quanto, laddove si riesca a riscontrare degli abusi da parte del dipendente, il datore di lavoro potrebbe senz’altro licenziarlo per giusta causa.

Come noto, il fenomeno dell’assenteismo da parte del lavoratore può manifestarsi in vari modi, tra i quali i più ricorrenti sono la simulazione di malattia e l’abuso dei permessi concessi dalla legge 104/1992.

La simulazione di malattia, costituisce uno degli esempi di assenteismo illegittimo dal posto di lavoro e si configura laddove il lavoratore rimanga assente presentando al proprio titolare una serie di certificati medici attestanti un’incapacità lavorativa simulata.

Non è infrequente che, in tali casi, il lavoratore impieghi il tempo ottenuto per rimanere a casa per altri fini personali, come ad esempio svolgere attività lavorativa parallela o altre attività con finalità ricreative.

Pertanto, il datore di lavoro che nutra un sospetto circa la veridicità della malattia attestata dal dipendente, potrà legittimamente rivolgersi a un’agenzia investigativa per l’accertamento. Tale principio è stato recentemente ribadito dalla Corte di Cassazione, Sezione Lavoro, con sentenza del 28 ottobre 2021 n. 30547 nell’affrontare il caso di un dipendente licenziato dal proprio titolare per simulazione di malattia. Nello specifico, il dipendente era stato licenziato a seguito di contestazioni disciplinari per aver tenuto una serie di comportamenti censurabili, tra i quali, l’aver simulato uno stato di malattia della durata di 7 giorni, quando invece le sue condizioni fisiche erano tali da consentirgli l’esecuzione della prestazione lavorativa.

Il titolare dell’azienda aveva, infatti, incaricato un investigatore privato che, a seguito della propria attività, aveva accertato il compimento da parte del lavoratore di una serie di azioni incompatibili con la patologia certificata, nello specifico lombosciatalgia.  La Corte di Appello, però, discostandosi dalla decisione del giudice di primo grado, aveva annullato il licenziamento e disposto la reintegrazione del dipendente nel posto di lavoro, condannando la società datrice ad un’indennità risarcitoria. Ciò in quanto, secondo i giudici di merito, il datore di lavoro non sarebbe legittimato a sostituirsi al professionista sanitario nel compiere valutazioni tecnico-scientifiche del tutto esorbitanti dal suo potere valutativo e discrezionale. Infatti, a parere della Corte di Appello, l’unico strumento che consentirebbe al datore di lavoro di effettuare un controllo medico del proprio dipendente sarebbe quello di richiedere la visita fiscale all’INPS. La Cassazione, investita del ricorso proposto dal titolare dell’azienda, evidenziava come le motivazioni della sentenza di secondo grado si fondavano su argomentazioni contrarie rispetto agli ormai consolidati principi in sede di legittimità. La Suprema Corte ribadiva quindi che, “in tema di licenziamento per giusta causa, il divieto di svolgere accertamenti sullo stato di malattia o infermità del dipendente non gli preclude di procedere, al di fuori delle verifiche di tipo sanitario, ad accertamenti di circostanze di fatto atte a dimostrare l’insussistenza della malattia o la non idoneità di quest’ultima a determinare uno stato di incapacità lavorativa rilevante e, quindi, a giustificarne l’assenza. Al datore di lavoro è riconosciuta la facoltà di prendere conoscenza di siffatti comportamenti del lavoratore che, pur estranei all’attività lavorativa, sono rilevanti sotto il profilo del corretto adempimento delle obbligazioni derivanti dal rapporto di lavoro. L’affermazione in virtù della quale il datore di lavoro non ha la possibilità di verificare aliunde l’effettività dello stato di malattia del lavoratore, non è, pertanto, corretta in punto di diritto”. Con tale pronuncia la Cassazione ha voluto rimarcare la piena legittimità dei controlli svolti dal datore di lavoro per il tramite di agenzie investigative, di fatto dotate di tutti i mezzi necessari per raccogliere elementi di prova poi utilizzabili in un eventuale futuro giudizio. In linea generale, quindi, la Suprema Corte, ha precisato che, “in tali casi, non si verte in ipotesi di controllo datoriale circa l’esecuzione della prestazione ma, piuttosto, nella verifica di un comportamento extra-lavorativo illecito, fondato sul sospetto dell’imprenditore in relazione al mancato svolgimento illegittimo della prestazione per insussistenza dell’incapacità lavorativa”. Fermo restando quanto disposto dall’art. 5 della Legge n. 300/1970, che impone al datore di lavoro di effettuare controlli sulle assenze per infermità solo mediante i servizi ispettivi degli istituti previdenziali competenti, l’imprenditore può procedere ad accertamenti di circostanze di fatto dimostrative dell’insussistenza della malattia o della non idoneità di questa a determinare un’incapacità lavorativa, sempre che si pongano al di fuori delle verifiche di tipo sanitario. Ne discende, pertanto, che al datore di lavoro è sempre precluso l’accertamento di tipo sanitario ma, al contrario, gli è consentita la verifica della riscontrabilità della malattia certificata dal dipendente o, comunque, la sua inidoneità a determinare un’incapacità lavorativa rilevante.

Altro esempio di assenteismo, come anticipato in precedenza, è rappresentato dall’abuso dei permessi concessi ai lavoratori dalla Legge n. 104/1992 che consente ai familiari di persone disabili di poter ottenere delle ore o delle giornate di permesso per prestare assistenza al parente bisognoso. Non di rado accade che il lavoratore che usufruisce del permesso, in realtà, dedichi quelle ore o quelle giornate a compiere altre attività personali o mansioni non interamente dedicate all’assistenza del familiare disabile. Un simile comportamento, laddove accertato dal datore di lavoro, costituisce giusta causa di licenziamento, in quanto il dipendente è tenuto a dedicare il periodo di permesso concessogli esclusivamente all’ attività finalizzata all’assistenza del proprio parente. Su questo specifico punto la Suprema Corte, con due distinte pronunce, ha precisato che “l’assenza dal lavoro per usufruire di permesso ai sensi della l. n. 104 del 1992 deve porsi in relazione causale diretta con lo scopo di assistenza al disabile, con la conseguenza che il comportamento del dipendente che si avvalga di tale beneficio per attendere ad esigenze diverse integra l’abuso del diritto e viola i principi di correttezza e buona fede, sia nei confronti del datore di lavoro che dell’Ente assicurativo, con rilevanza anche ai fini disciplinari(Cassazione Civile, Sezione VI, 16 giugno 2021, n. 17102). Nel caso esaminato dalla Cassazione, infatti, veniva confermato il licenziamento del lavoratore che durante i permessi ottenuti ex legge 104/1992, aveva svolto attività incompatibili con l’assistenza alla madre, essendosi recato prima al mercato, poi al supermercato e infine al mare con la famiglia, piuttosto che presso l’abitazione della madre

Con successiva ordinanza del 18 ottobre 2021, n. 28606 la Cassazione ha giudicato il caso di un lavoratore licenziato per giusta causa per essere rimasto assente da lavoro per fruizione di permesso 104 per l’assistenza alla moglie disabile. In realtà, il dipendente si era recato dapprima presso una struttura alberghiera gestita dalla moglie, successivamente presso altra attività commerciale sempre gestita dalla moglie, facendo infine ritorno ancora nella struttura alberghiera. Il lavoratore aveva così, di fatto, dedicato soltanto 50 minuti nell’arco dell’intera giornata di fruizione del permesso alla madre disabile, presso la cui abitazione si era recato soltanto per il tempo utile per la preparazione del pranzo. La Suprema Corte precisava che “anche se al lavoratore è concesso nell’arco della giornata di fruizione del permesso, di dedicare un lasso di tempo alle proprie esigenze e bisogni personali, la giornata in cui si usufruisce del permesso deve essere sempre connotata dall’effettiva prestazione dell’assistenza al familiare disabile”. La stessa Corte ribadiva che i “permessi Legge 104” non possono essere utilizzati per esigenze diverse, qualsiasi esse siano, rispetto a quelle proprie per la funzione cui la norma è preordinata, atteso che il beneficio comporta un sacrificio organizzativo per il datore di lavoro, giustificabile solo in presenza di esigenze riconosciute dalla coscienza sociale meritevoli di tutela. A tali permessi non può nemmeno essere attribuita alcuna funzione compensativa o di ristoro delle energie abitualmente impiegate dal dipendente per l’assistenza prestata al disabile, in quanto il permesso deve essere concretamente e fattivamente utilizzato per l’effettiva prestazione di assistenza.

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