Per rispondere compiutamente alla domanda se sia o meno legittimo il licenziamento intimato al dipendente che svolge attività sportiva durante il periodo di malattia, occorre fare alcune premesse.

Si tratta, infatti, di comprendere quali siano le tutele previste dall’ordinamento in capo al datore di lavoro che sorprende il proprio dipendente a svolgere altra attività, sia essa lavorativa, sportiva o ludica, durante il periodo di assenza dal lavoro per infortunio o malattia.

L’argomento è stato più volte affrontato dalla giurisprudenza e recentemente ha costituito oggetto di pronuncia da parte del Tribunale di Bologna che, con sentenza del 1° marzo 2022, ha dichiarato illegittimo il licenziamento irrogato al dipendente sorpreso a fare l’arbitro in alcune partite di calcio durante l’astensione dal lavoro dovuta ad infortunio.

Va ricordato che non sussiste in capo al lavoratore assente per infortunio o malattia un divieto assoluto di svolgere altre attività, lavorative, ludiche o di intrattenimento, in quanto il fatto che la malattia abbia compromesso la possibilità di svolgere la prestazione lavorativa, non esclude che le residue capacità del soggetto possano consentirgli di svolgere attività diverse. (Cass., Sez. Lavoro, n. 6047/2018).

Pertanto, l’esercizio di tali attività non costituisce, di per sé, una violazione degli obblighi contrattuali imposti al lavoratore nello svolgimento del rapporto di lavoro.

Al contrario, la giurisprudenza è concorde nel ritenere che, laddove la condotta tenuta dal lavoratore si ponga in violazione dei principi di correttezza e buona fede fondanti il rapporto di fiducia, allora la stessa avrà un rilievo disciplinare che potrà giustificare il licenziamento del dipendente.

I casi più esemplari sono quelli in cui il datore di lavoro sorprenda in proprio dipendente assente per malattia a svolgere attività che ne facciamo sospettare una simulazione (dunque, l’inesistenza dell’infermità dichiarata) o siano tali da pregiudicare o ritardare il rientro del lavoratore in servizio.

Si tratta di un principio ormai consolidato e recentemente ribadito dalla Cassazione con sentenza n. 13063/2022 con la quale, in sostanza, si afferma che l’ordinamento tutela la mancata prestazione lavorativa dovuta ad infortunio o malattia, solo nei casi in cui l’assenza non sia imputabile alla condotta volontaria del lavoratore che operi scelte che possano pregiudicare l’interesse del datore di lavoro a ricevere regolarmente la prestazione.

Nella medesima pronuncia, la Corte ha anche precisato che assume rilievo il comportamento del lavoratore che non osservi tutte le cautele, comprese quelle terapeutiche e di riposo prescritte dal medico, volte a non pregiudicare il recupero delle energie lavorative e, di conseguenza, il suo rientro.

Il lavoratore, quindi, è tenuto ad osservare le prescrizioni mediche volte a ristabilire le idonee condizioni di salute per adempiere alle mansioni lavorative cui è obbligato.

In buona sostanza, si tratta di apprezzare se la condotta tenuta dal lavoratore sia astrattamente idonea a violare gli obblighi contrattuali impostigli per legge e a minare il rapporto fiduciario esistente tra le parti.

Sarà il giudice di merito che dovrà valutare, mediante giudizio ex ante di tipo prognostico, se la condotta contestata possa pregiudicare, anche solo potenzialmente, la ripresa del servizio.

Pertanto, la compromissione del rapporto fiduciario andrà accertata caso per caso in forza di una serie di variabili, quali le modalità, i tempi, i luoghi in cui le diverse attività sono state volte ed anche in base al tipo di infermità dichiarata e diagnosticata.

In relazione alla ripartizione dell’onere probatorio in licenziamenti irrogati nelle fattispecie sopradescritte, la giurisprudenza, nel tempo, ha mutato il proprio orientamento.

Secondo un primo filone, spetterebbe al lavoratore dimostrare che le attività extra-lavorative svolte erano compatibili con il suo stato di malattia e ciò in base al c.d. criterio di vicinanza alla fonte di prova, tuttavia, con altro filone giurisprudenziale la Cassazione ha superato il predetto criterio, proprio sulla scorta del fatto che nel nostro ordinamento non vige un assoluto divieto di svolgimento di attività extra-lavorativa. La logica conseguenza sarebbe quella di porre in capo al datore di lavoro l’onere di provare la sussistenza della giusta causa di licenziamento.

Per osservare tale onere il titolare dell’azienda ha a disposizione differenti mezzi: potrà avvalersi di investigatori privati o ricorrere a visite fiscali.

Sempre con la pronuncia sopra richiamata n. 13063/2022 la Cassazione ha ribadito che, in tema di licenziamento per giusta causa, al datore di lavoro è vietato svolgere accertamenti sulle infermità per malattia del dipendente, potendo egli effettuare il controllo delle assenze per infermità solo mediante i servizi ispettivi previdenziali competenti. Tuttavia, al datore di lavoro non è precluso di effettuare investigazioni private mediante incarico ad apposite agenzie, per raccogliere elementi dimostrativi dell’insussistenza della malattia o la sua non idoneità a giustificare l’assenza dal lavoro, purché non si tratti di accertamenti di tipo sanitario.

Casistica sullo svolgimento di attività extra-lavorativa sportiva

Come precisato in premessa, la condotta del lavoratore che durante il periodo di malattia eserciti altra attività extra-lavorativa, deve essere valutata caso per caso dal giudice di merito.

In relazione alla casistica relativa a tali fattispecie, la giurisprudenza ha adottato pronunce differenti a seconda del caso trattato.

Infatti, prima della sentenza emessa dal Tribunale di Bologna il 1° marzo 2022, la questione era stata più volte affrontata.

Con pronuncia n. 25162/2014 la Cassazione ha ritenuto legittimo il licenziamento intimato al dipendente che, durante il periodo di assenza dal lavoro per malattia per una lombosciatalgia acuta, era stato sorpreso a sollevare una bombola di gas, a sostituire una ruota della sua autovettura e a prendere in braccio la figlia. Ciò in quanto, tali attività, erano state considerate sintomatiche della sua buona efficienza fisica, del tutto incompatibile con la patologia dichiarata.

Con sentenza n. 16465/2015, invece, la Suprema Corte ha ritenuto illegittimo il licenziamento del lavoratore che, assente dal lavoro per una colica addominale, aveva effettuato immersioni di pesca subacquea.

Ed ancora, con sentenza n. 10647/2017 si riteneva legittimo il licenziamento del lavoratore assente per malattia per distorsione della caviglia, il quale aveva partecipato a partite di calcio a seguito delle quali si era verificato anche un aggravamento dei postumi, ritenendo tale condotta lesiva del vincolo fiduciario.

Infine, con una recente pronuncia, la Corte di Appello di Brescia (n. 65/2020) ha precisato che è irrilevante sotto un profilo disciplinare il comportamento del lavoratore che non rispetti le prescrizioni mediche che gli impongono di astenersi da ogni attività sportiva, se ciò non comporta un prolungamento della degenza.

Il Tribunale di Bologna, con sentenza 1° marzo 2022, ha invece optato per una soluzione di mezzo nel giudicare il caso di un dipendente infortunatosi ad un gomito, licenziato poiché sorpreso dal datore di lavoro ad arbitrare partire di calcio nel periodo di astensione dal lavoro per malattia.

Il lavoratore aveva impugnato il licenziamento sostenendo che l’attività sportiva espletata non fosse idonea a pregiudicare la sua guarigione ed il conseguente rientro al lavoro e la relativa ordinanza era stata opposta dal datore di lavoro.

Il Tribunale di Bologna ha ritenuto illegittimo il licenziamento irrogato dall’azienda, in quanto la modesta entità dell’infortunio non era idonea ad ostacolare lo svolgimento di attività sportiva che, peraltro, richiedeva il solo sforzo degli arti inferiori.

Sul punto, il Tribunale di Bologna ha evidenziato che “lo svolgimento di attività̀ sportiva in pendenza di malattia o in stato di infortunio non è, per ciò̀ solo, inibito al lavoratore, il quale può̀ legittimamente dedicarsi ad altra occupazione, ricreativa o di intrattenimento, in quanto compatibile con lo stato di malattia e conforme all’obbligo di correttezza e buona fede, gravante sul lavoratore, di adottare ogni cautela idonea perché cessi lo stato di malattia con conseguente recupero dell’idoneità̀ al lavoro”

L’attività di arbitraggio, quindi, non è stata ritenuta ex ante come potenzialmente idonea a pregiudicare la pronta guarigione o il rientro in servizio e, pertanto, il datore di lavoro non era legittimato a recedere dal rapporto per giusta causa.

Tuttavia, come anticipato, il Tribunale ha comunque ritenuto la condotta contestata al lavoratore rilevante sotto un profilo disciplinare, tanto da meritare una sanzione conservativa, in quanto attuata in violazione dei doveri di correttezza e buona fede.

L’art. 18 dello Statuto dei Lavoratori prevede, infatti, che il giudice deve annullare il licenziamento:

  • nelle ipotesi in cui accerti che non ricorrono gli estremi del giustificato motivo soggettivo o della giusta causa addotti dal datore di lavoro, per insussistenza del fatto contestato ovvero perché il fatto rientra tra le condotte punibili con una sanzione conservativa sulla base delle previsioni dei contratti collettivi ovvero dei codici disciplinari applicabili (art. 18 comma 4 Legge 300/1970);
  • nelle altre ipotesi in cui accerti che non ricorrono gli estremi del giustificato motivo soggettivo o della giusta causa addotti dal datore di lavoro. In tal caso il giudice dichiara risolto il rapporto di lavoro con effetto dalla data del licenziamento (art. 18 comma 5 Legge 300/1970).

Il Tribunale di Bologna, facendo rientrare la condotta del dipendente “nelle altre ipotesi” di cui al comma 5 dell’art. 18 Legge 300/1970, ha dichiarato la risoluzione del contratto di lavoro con effetto dalla data del licenziamento, condannando il datore di lavoro al pagamento dell’indennità risarcitoria a favore del dipendente.

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