E’ legittimo il licenziamento del padre che, durante il congedo parentale, svolge altre attività non attinenti al soddisfacimento dei bisogni affettivi e relazionali del figlio (ex art. 32 d.lgs. n. 151/2001). Lo ha stabilito la Corte di Cassazione Sezione Lavoro, con la sentenza n. 509 dell’11 gennaio 2018, confermando così la decisione della Corte d’Appello dell’Aquila nei confronti di un dipendente di una ditta di trasporti. Quest’ultimo, in permesso parentale per l’appunto, non aveva “svolto alcuna attività” in favore del bimbo, come aveva appurato, attraverso appostamenti e foto, un’agenzia investigativa su mandato del datore di lavoro.
La Suprema Corte, richiamando numerosi precedenti giurisprudenziali, ha ricordato che, nonostante l’Istituto del congedo parentale sia qualificato come diritto potestativo, si può configurare un abuso “allorché il diritto venga esercitato non per la cura diretta del bambino, bensì per attendere ad altra attività di lavoro, ancorché incidente positivamente sulla organizzazione economica e sociale della famiglia; ma analogo ragionamento può essere sviluppato anche nel caso sottoposto all’attenzione del Collegio in cui il genitore trascuri la cura del figlio per dedicarsi a qualunque altra attività che non sia in diretta relazione con detta cura, perché ciò che conta non è tanto quel che il genitore fa nel tempo da dedicare al figlio quanto piuttosto quello che invece non fa nel tempo che avrebbe dovuto dedicare al minore”.
La Cassazione ha, inoltre, ribadito come “nel vigente ordinamento processuale, improntato al principio del libero convincimento del giudice e in assenza di una norma di chiusura sulla tassatività tipologica dei mezzi di prova, questi può porre a fondamento della decisione anche prove atipiche” come, nel caso specifico, l’accertamento investigativo compiuto da un’agenzia; le relazioni in questione, “costituirebbero scritti del terzo e, quindi, una prova atipica, che, tuttavia, essendo formate dagli investigatori in funzione testimoniale, avrebbero dovuto – stando ai motivi del ricorso – – essere confermate dai medesimi nel processo e non dal rappresentante legale”. La Suprema Corte ha, invece, posto l’accento sul fatto che “il giudice può legittimamente porre a base del proprio convincimento anche le dichiarazioni scritte provenienti da terzi, senza che ne derivi la violazione del principio di cui all’articolo 101 c.p.c., atteso che, sebbene raccolte al di fuori del processo, il contraddittorio si instaura con la produzione in giudizio”.